Madre Russia, col grano ancora al centro del mondo
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Quando il 1° gennaio del 2006 la Russia di Putin tagliò le forniture di gas alla confinante Ucraina, il mondo improvvisamente si è ricordato che attraverso le risorse energetiche si possono controllare le vite delle persone e governare i fili talvolta invisibili delle relazioni internazionali.
Solo quattro anni più tardi, la Russia guidata della diarchia Putin – Medvedev fu nuovamente il telaio sul quale si tesseva la trama della globalizzazione.
- La vicenda del blocco delle esportazioni
Un’estate torrida come non si registrava da oltre un secolo fece crollare la produzione di grano – di cui la Russia è terzo produttore mondiale – causando un aumento generalizzato dei prezzi di numerosi beni di consumo e generi alimentari. Il governo rispose imponendo un blocco alle esportazioni, nella speranza di contenere il carovita generalizzato.
La politica di contingentamento scelta dal governo Russo sembrava però non tenere in debito conto che l’80% della produzione mondiale di grano avviene nell’emisfero Nord del pianeta, quindi raccolto durante la stagione estiva, mentre la produzione dell’emisfero australe è residuale e invertita stagionalmente, con la raccolta che si concentra nei mesi di gennaio e febbraio.
Due anni dopo la bolla speculativa sulle commodities del 2008, la siccità russa, insieme alla politica di blocco delle esportazioni, ha significato un calo drastico dell’offerta di grano a livello mondiale nel secondo semestre del 2010, rimediabile solo con il raccolto della stagione successiva.
I prezzi sono così tornati a salire drasticamente e l’aumento si è ripercosso in modo particolarmente violento sui mercati tradizionali di riferimento dell’export russo, il Nord Africa. L’incremento di derrate inviate dai paesi UE ha compensato solo in minima parte il vuoto lasciato dalla carestia russa.
Così, quelli che erano cominciati come semplici “tumulti per il carovita” nel Nord Africa, hanno assunto ben presto i connotati di ribellioni su più vasta scala, che oggi chiamiamo “Primavera Araba”.
A tre anni dai fatti, lo stesso governo Russo ha tacitamente riconosciuto come errore la politica del blocco delle esportazioni, evitando saggiamente di ripetersi in seguito alla magra stagione di raccolta del 2012.
- Il potere politico delle materie prime
Se in termini percentuali queste variazioni nella produzione possono sembrare sostenibili, in termini assoluti si tratta di dimensioni gigantesche (30-40 milioni di tonnellate di grano in meno), capaci di influire sulle dinamiche di prezzo a livello mondiale lungo tutta la filiera alimentare. L’aumento del prezzo del grano nel 2010 ha infatti causato un aumento conseguente e quasi immediato nel prezzo della carne suina e bovina americana e brasiliana, che si è esteso ben presto ad una vastissima gamma di prodotti e beni di prima necessità.
A causa del blocco alle esportazioni i produttori agricoli russi non hanno potuto beneficiare dell’aumento dei prezzi del grano, con il risultato che gli investimenti nella produttività, necessari per accrescere la modesta capacità produttiva dell’agricoltura post-sovietica, sono stati in larga misura rimandati, rimettendo all’annata agraria successiva la speranza che la situazione si normalizzasse.
Dopo il collasso del regime sovietico, la produzione di stampo collettivista, basata su grandissime estensioni a bassa produttività, è stata in parte rivoluzionata a favore di aziende di dimensione medio-piccole, seguendo una filosofia che sembra avvicinarsi alla teoria di “little ownership society” promossa ad inizio anni 2000 dalla presidenza Bush negli USA.
Con una popolazione che ancora si concentra per oltre la metà in una modesta porzione di territorio al di qua degli Urali, definita Russia Europea, e un territorio essenzialmente pianeggiante coltivabile per oltre tre quarti della superficie complessiva, i governi russi post-sovietici hanno intravisto nella produzione agro-alimentare e nello sfruttamento delle materie prime due potenti strumenti per arginare il gigantesco fiume di disoccupati, attivi, al tempo della produzione pianificata, nei comparti siderurgico e manifatturiero oggi pesantemente ridimensionati.
Da un lato, quindi, una frettolosa rivoluzione negli assetti della proprietà, con tentativi malriusciti di dismissione delle enormi aziende collettive allo scopo di garantire una seppur modesta entrata ad un’ampia fetta di popolazione; dall’altro, la conseguente mancanza delle risorse necessarie per attuare quei processi di meccanizzazione e ammodernamento produttivo che aumenterebbero la competitività dell’agricoltura russa.
Sul tutto pesa poi il fattore climatico, che limita considerevolmente la diversificazione produttiva. Accanto all’enorme produzione cerealicola, le poche colture ampiamente diffuse sono barbabietole, rape e verze, colture tipicamente estensive e resistenti alle basse temperature.
- Gastronomia russa, figlia del clima
La cucina, conseguentemente, è stata fortemente influenzata a sua volta dal fattore climatico.
I quattro pasti che tradizionalmente si consumano nel corso della giornata sono tutti caratterizzati da un apporto molto marcato di carboidrati, proteine complesse e grassi, principalmente animali.
Il vasto impiego di carni salate e affumicate, unito al ridotto consumo di verdura e frutta fresche, è certamente uno dei principali fattori scatenanti alla base dell’aumento del numero di persone in soprappeso e di patologie cardiovascolari, secondo quanto riferisce il Russian Academy for Medical Science.
La coda di 5 ore all’inaugurazione, nel 1989, del primo Mc Donald’s in una Mosca ancora capitale dell’Unione Sovietica, lascia intendere un’allarmante scarsa considerazione da parte della popolazione russa nei confronti della Salute.
La conferma sembra provenire da una recente campagna di prevenzione condotta dal Ministero Russo per la Protezione della Salute nel tentativo di promuovere una riduzione del consumo di sodio e zuccheri presso le scuole. Senza nemmeno l’insorgere di evidenti forme di protesta, le famiglie hanno cominciato a dotare i propri figli di saliere e dolciumi da portare a scuola per sopperire a quelli che sono stati erroneamente percepiti come tagli di natura economica mascherati con motivazioni salutistiche.
Nella società russa post-sovietica, uno stile di vita basato sugli eccessi è considerato uno status-symbol ed il consumo smodato di alcolici e tabacchi, che caratterizza soprattutto la vita metropolitana di Mosca e San Pietroburgo, sembra confermarlo.
- La “lotta per il caviale”
Il culto della ricchezza e dell’ostentazione affonda le proprie radici nella tradizione culturale aristocratica della Russa zarista.
La ricerca della raffinatezza fino agli eccessi da parte dei boiardi russi è stata celebrata, condannata e immortalata dalla stessa letteratura russa.
Il gusto kitsch e pacchiano degli attuali oligarchi russi nelle grazie dei governanti, appare come un ricordo sbiadito della raffinata opulenza aristocratica russa, ma l’affinità psicologica è evidente.
Questo modello sociale ha portato con sé due aspetti di rilievo: da un lato uno scarso interesse per la salute, trasversale a quasi tutte le classi sociali, dall’altro ha favorito una contaminazione culturale che ha trovato una delle sue massime espressioni proprio nella gastronomia.
Per ben due volte gli zar si sono affidati alla mano italiana per ridisegnare le insegne e i fasti del loro impero. La prima, nel pieno del Rinascimento italiano, per volere di Ivan III il grande il quale fece ricostruire le mura di Mosca e interi quartieri della città; la seconda, per mano di Pietro il Grande che nel 1703 fondò la nuova capitale San Pietroburgo.
Insieme agli architetti e alle maestranze, dall’Italia giunsero artigiani e commercianti che si stabilirono a Mosca e San Pietroburgo importando in Russia cibi e mode come l’uso della pasta da lavorazione del grano, l’arte dolciaria e la gelateria artigianale.
Anche il prestigioso caviale – le uova di storione che i Romanov usarono a partire dal 1675 come dono per ingraziarsi il favore delle corti europee – figurava tra le prelibatezze alimentari diffuse nella Repubblica Serenissima e presso la corte degli Estensi a Ferrara già a partire dagli inizi del ‘500.
In nome del caviale si sono combattuti lo Stato Pontificio e la Repubblica di Venezia alla metà del ‘700 per i diritti di pesca sul delta del Po, mente intorno al 1980 il KGB avviò una fitta rete di controllo sulle esportazioni, dopo aver scoperto un giro di tangenti versate ad alti funzionari del regime su banche svizzere in cambio di partite di caviale.
Salito al trono Pietro il Grande, che sognava di trasformare la Russia in una moderna nazione europea, portò a corte cuochi francesi, introducendo una moda che si diffuse a macchia d’olio presso tutta la nobiltà russa. Di questo melting pot culinario rimangono ampie tracce anche nella gastronomia italiana e francese, a partire dalla cosiddetta “insalata russa”, ricetta celebrata nel mondo e nata nella seconda metà dell’800 dall’idea del cuoco belga Lucien Olivier, titolare del più rinomato ristorante moscovita: l’Hermitage.
Nel corso dell’800, la prepotente diffusione in Russia del costume à-la-façon-francais stimolò la ricerca di territori dove il clima permettesse la produzione di vino, tradizionalmente scarsa e di qualità mediocre. Nel distretto di Novyi Svit, sito nella penisola di Crimea, oggi territorio ucraino sotto il controllo amministrativo di Sebastopoli, favorito da un clima quasi mediterraneo, il Principe Golitzin avviò alla fine dell’800 una ricca produzione vitivinicola che si allargò fino alle sponde del lago Abrau nel distretto di Krasnodar. Nell’anno 1900, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, venne premiato come “miglior Champagne” del mondo.
Rimasta celeberrima fino alla completa collettivizzazione della produzione agricola, l’etichetta dello Champagne Russo divenne un marchio del regime perdendo in qualità, sotto il nome di Sovetskoye Shampanskoye.
- Tra presente e futuro
Nel 1997 un report allora riservato del WHO sulla condizione nutrizionale e sanitaria nella neo-nata Federazione Russa, esprimeva viva preoccupazione per un trend fino ad allora sconosciuto presso le “nazioni evolute”, ovvero una riduzione dell’aspettativa di vita media.
Nel 1991 le linee guida del Ministero per la Protezione della Salute dell’URSS, rimaste in vigore immutate fino all’alba del 2000, raccomandavano livelli di assunzione di proteine e grassi che risultavano doppi rispetto a quanto raccomandato dalla scienza medica negli USA e nella maggior parte dei paesi UE. Retaggio, questo, che si è trascinato attraverso gli oltre 70 anni di regime sovietico, che tra i pochi obiettivi raggiunti poteva tuttavia vantare di aver quasi azzerato, al prezzo insostenibile di una pianificazione economica totale, la fame atavica che da secoli caratterizzava la vita nelle campagne russe.
La Russia post sovietica ha dimostrato una capacità sorprendente di adattamento ai repentini cambiamenti economici imposti dalle ripetute crisi che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni.
Quest’ultime hanno segnato profondamente i modelli di consumo in Russia, ma non hanno influito in maniera determinante sui parametri nutrizionali e antropometrici della popolazione.
Il prezioso studio condotto da Stillman e Thomas nel 2007 e basato su quello che forse è l’unico studio nutrizionale di rilievo condotto nella Russia post sovietica (Russia Longitudinal Monitoring Survey) testimonia questa capacità di adattamento delle famiglie e degli individui ai repentini cambiamenti economici dettati dalla globalizzazione, anche in presenza di fattori difficilmente controllabili come la disponibilità di risorse energetiche ed il clima.
Basandosi sull’interazione tra cambiamenti repentini (shot-term run) e di lungo corso (long-term run), il caso russo mette in luce ciò che, prendendo in prestito dall’ingegneria una parola, potremmo chiamare resilienza. Ovvero la popolazione russa ha dimostrato una capacità di risposta reattiva alle avversità e ai cambiamenti oltre le attese.
Ma anche la resilienza russa ha un limite. L’esposizione del paese alle oscillazioni determinabili da speculazioni finanziarie su prodotti come le commodities, rischierebbe di superare le possibilità di adattamento della popolazione.
La posizione dei governi russi sembra oscillare tra proclami anti speculazione e un certo lassismo nei fatti, comprensibile alla luce dell’uso strategico che la Russia fa delle proprie risorse come merce di scambio in campo internazionale.